Lavoro agile: strumento di welfare o di ottimizzazione delle organizzazioni?
L’emendamento approvato in Commissione Affari Sociali alla Camera, in sede di esame del disegno di legge di conversione al decreto-legge n. 24 del 2022 (il decreto Riaperture Covid), ha prorogato lo smart working per i lavoratori fragili della Pubblica Amministrazione fino al 30 giugno.
Questa è, al contempo, una buona ed una cattiva notizia.
Una buona notizia, perché protegge quei lavoratori la cui salute potrebbe essere messa a rischio dalla frequentazione di ambienti densi di persone, finché la pandemia non sarà risolta.
Ma è anche una cattiva notizia, perché relega il lavoro agile nel ruolo di strumento di welfare aziendale, generando due effetti ai quali forse non è così immediato pensare, ma che è bene tenere in considerazione.
Il primo impatto è sulla modernizzazione e sull’efficienza della Pubblica Amministrazione. Con l’emergenza Covid abbiamo scoperto che è possibile organizzare riunioni a distanza e lavorare anche senza la necessità di essere tutti fisicamente nello stesso luogo. Questo sta consentendo di strutturare i processi decisionali in un modo mai immaginato prima, poiché coinvolge a bassissimo costo tutte le persone interessate, anche se distanti.
Molti Enti sono riusciti, ad esempio, a ridurre drasticamente i tempi delle Conferenze dei Servizi, e la possibilità di effettuare le sedute del Consigli Comunali a distanza ha permesso di proseguire le attività a ritmi anche più rapidi del passato; in moltissimi casi, la possibilità di incontrare persone lontane senza doversi muovere ha generato non solo un risparmio dei costi di trasporto e trasferta, ma anche un utilizzo produttivo delle ore lavorative che altrimenti sarebbero state trascorse in viaggio.
La digitalizzazione di moltissimi servizi della Pubblica Amministrazione consente inoltre di ridurre drasticamente il fabbisogno di personale fisicamente presente allo sportello che, idealmente, dovrebbe in futuro tendere a zero con la diffusione dell’identità digitale dei Cittadini e la loro crescente alfabetizzazione informatica.
In una situazione del genere, la necessità di presenza fisica sul luogo di lavoro si riduce moltissimo.
Certo, non proponiamo un modello di intere organizzazioni in telelavoro, poiché rimarrà sempre importante prevedere dei momenti nei quali le persone lavorino fisicamente insieme. È dimostrato infatti che la compresenza delle persone è necessaria per non solo per creare quei legami affettivi fra le persone, che costituiscono una componente estremamente importante della motivazione (da Maslow a McClelland, solo per citare due delle teorie più note), ma anche per attivare i processi di identificazione con l’organizzazione che contribuiscono in modo significativo ad innalzare il livello di engagement delle persone.
Inoltre, la convivenza in uno stesso ambiente è fondamentale per i meccanismi di apprendimento vicario cioè quella forma di acquisizione di competenze che avviene per osservazione e imitazione dei comportamenti degli altri, senza la quale la formazione delle persone diventerebbe un processo estremamente lungo e oneroso.
Infine, lavorare in spazi condivisi con altre persone favorisce i processi di innovazione poiché ci espone alle relazioni deboli, cioè a contatti al difuori della stretta cerchia di persone che fanno parte del nostro gruppo di lavoro e, di conseguenza, favorisce il confronto con punti di vista, approcci e conoscenze diversi, che sono frequentemente alla base di un pensiero nuovo.
Ma, fermi restando questi aspetti importantissimi, per la maggior parte dei lavori dei colletti bianchi, la presenza continuativa in ufficio non è necessaria per garantire efficacia ed efficienza.
Spesso, il problema è connesso con la capacità dell’organizzazione di valutare il lavoro effettivamente svolto a distanza dai lavoratori in smart working. Per molti lavori è difficile individuare in modo compiuto l’output, soprattutto con riferimento agli aspetti qualitativi del lavoro.
Molti manager ricorrono a quella che sembra la soluzione più semplice: misurare il tempo speso su quell’attività. Il ragionamento che viene fatto è il seguente: se il mio collaboratore rimane fino a tardi per lavorare, allora significa che si sta impegnando e, dato che è una persona competente, posso assumere che stia facendo un buon lavoro.
Ma se il collaboratore sta lavorando da casa, per questi manager diventa impossibile capire quanto tempo ha dedicato al compito che gli è stato assegnato e quindi il meccanismo salta.
Perciò, chiedono a gran voce il ritorno in ufficio.
Molti Dirigenti non hanno colto l’opportunità di ripensare la divisione del lavoro, superando la parcellizzazione delle attività in un’ottica di maggiore valorizzazione delle competenze e di misurabilità del lavoro svolto.
La conseguenza è che spesso le persone si sono trovate a dover attendere risposte da altri colleghi e gli sfasamenti degli orari di lavoro hanno dilatato i tempi dei processi.
Una cultura del controllo sulle azioni più che sui risultati, insieme ad una confidenza con il digitale a volte decisamente limitata hanno completato il quadro.
Ma in questi casi, più che limitare il lavoro agile, sarebbe opportuno potenziare i sistemi di valutazione (non tanto quelli connessi con la produttività e l’indennità di risultato, quanto piuttosto quelli legati all’attività quotidiana delle persone) e sviluppare una cultura organizzativa tramite interventi di formazione e sistemi di gestione del personale che sostengano la responsabilizzazione e l’orientamento al risultato.
Occorre individuare le attività intermedie da valutare utilizzando le tecniche del project management e ricondurre i compiti assegnati non solo alla visione d’assieme, ma anche alle finalità, al senso di quanto si sta facendo.
Semplificando estremamente, bisogna partire dall’obiettivo strategico che si vuole raggiungere ed identificare le macro-azioni da compiere – in modo da avere indicatori relativi al risultato atteso – programmarle ponendo attenzione anche al percorso critico (priorità e colli di bottiglia) – così da poter monitorare i tempi – e suddividerle poi con la work breakedown structure – al fine di individuare gli oggetti di valutazione dell’attività quotidiana.
Il tutto, responsabilizzando le persone su attività che abbiano senso in sé e non siano una micro-azione della quale di perde il significato, sia per meglio motivare le persone, sia per limitare il rischio che, sebbene ognuno abbia fatto la propria parte, il risultato complessivo non venga raggiunto.
Il secondo impatto negativo derivante dalla scelta di leggere il lavoro agile come strumento di welfare e non di ottimizzazione dell’attività è più scivoloso ed ha a che vedere con la parità di genere.
Potrebbe sembrare un paradosso, ma consentire lo smart working a chi ha figli fino ad una certa età, invece che facilitare l’integrazione delle donne nel mondo del lavoro, le esclude dai ruoli di maggiore responsabilità (e retribuzione).
Questo perché dicotomizza la vita tra famiglia e carriera e, pertanto, impone una scelta: chi utilizza il lavoro agile lo fa perché predilige i compiti di cura rispetto agli obiettivi dell’organizzazione.
Le esperienze degli altri Paesi insegnano che per ridurre il gender gap è necessario attivare strumenti che favoriscano la condivisione fra entrambi i genitori delle responsabilità di cura.
Lo ha fatto con grande successo Ursula Von der Leyen fra il 2005 e il 2009 quando era al Ministero della famiglia tedesco ed ha introdotto l’Elterngeld, cioè un congedo parentale di 12 mesi retribuito al 67% del reddito fruibile da entrambi i genitori, con una premialità che lo porta a 14 mesi se l’altro genitore (di norma il padre) ne prende almeno una parte.
Il lavoro agile può agire un ruolo prezioso per sostenere la parità di genere, ma lo è soprattutto se è inteso come una normale modalità di lavoro, strumento per incrementare l’efficienza, mentre lo è molto meno se lo si fa rientrare nel mondo del welfare.
Se lavorare da casa non preclude la carriera, lo faranno anche i padri e questo permetterà una migliore distribuzione dei carichi di cura e la possibilità di accesso alla carriera anche alle donne con figli (ricordiamo che al momento in Italia il 65% delle donne con figli piccoli non lavora).
Davanti alle scuole, all’entrata e all’uscita dei bambini, non ci sono mai stati tanti uomini come adesso e un passo indietro sarebbe un vero peccato per le donne nel lavoro (e anche per i bambini e per i loro papà).
La Ragioneria Generale dello Stato evidenzia che mancano le coperture per lo smart working.
Tuttavia, considerando gli importanti effetti positivi sulla produttività, l’efficienza, l’efficacia dell’Amministrazione e sulla parità di genere, si potrebbe verificare se, fra gli investimenti nella digitalizzazione della PA previsti dal PNRR si possono contemplare anche dei portatili che, oltre a permettere un migliore lavoro in ufficio, consentano ai lavoratori di connettersi anche da casa.